[Doveva essere un post, ne son venuti fuori di più… Ne sto pubblicando uno ogni due giorni a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno. Questa è la seconda puntata. La prima puntata con introduzione ben fatta è qui, la terza puntata sarà qui, la quarta qui]
Giacché parlando di “femminicidio” ho citato “le donne” e le donne come le vedono “loro”, passo a una parola entrata in auge solo recentemente e che riguarda (scontrandovisi? ma non mi piace comunque) l’idea di “donna = mamma” che cercano di passarci a tutti i costi come necessaria e ovvia. Mi riferisco a: “baby-park” o “baby-parking“.
Sono quei luoghi in cui porti tuo/a figlio/a per lasciarlo alle cure di qualche babysitter. Perché si sia iniziato a chiamarli “baby-parking” non lo so. Quello che mi affascina è capire perché la cosa non sconvolga nessun’altra persona oltre a me (che io sappia) e quanto, di nuovo, il significante corrisponda al significato [parto dal presupposto che il senso di “parking” sia noto].
Mamme e papà che parcheggiano la loro auto (!) davanti ad uno di questi posti non si sentono male all’idea di parcheggiare anche loro figlio o loro figlia? O forse è davvero questo che si fa nel 2013, che si farà sempre più nel 2014? Cercare luoghi in cui parcheggiare temporaneamente (e a pagamento) i propri figli, le prorpie figlie, le proprie responsabilità mentre ci fiondiamo nel più vicino centro commerciale a abbuffarci di tablet e smartphone da regalare alla stessa persona che abbiamo parcheggiato poco più in là perché si ottenga la tranquillità di un’area-parcheggio anche in salotto o in cameretta, senza dover nemmeno uscire di casa, senza il pericolo di farsi viziare un po’ dal nonno e sentire i racconti di quando la nonna faceva partorire le capre o andava a dieci anni a lavorare in fabbrica (io li ho sentiti oggi), senza il pericolo che si incappi in un po’ di vita vera? Che poi è anche possibile che in famiglia ci siano solo nonne e nonni più giovani dei miei (quasi 80 e 84 anni), nonni e nonne che magari lavorano ancora vista l’età a cui si va oggi in pensione – come mia zia che aiuta mia cugina come può tra un turno e l’altro e solo perché “per fortuna” (?) è in contratto di solidarietà. Detto tutto questo, elencate le attenuanti del caso, mi chiedo davvero a chi è che è venuto in mente di non chiamarli più “asili”, “doposcuola”, “centri ricreativi”, “centri gioco”… ma “parcheggi per bambini“.
In due post siamo già a due parole negative (magari le positive mi verranno in mente dopo): non ho amato “femminicidio”, piuttosto che “baby-parking”, piuttosto che… “piuttosto che“! Giuro che non riesco a capire perché abbiamo cominciato a usarlo in questo modo, al posto di “oppure” o di “e anche”, di “nemmeno”. Chi è stato? Quando esattamente? Perché nessuno/a si è lamentato subito? Perché si sono adattati tutti? Perché lo fanno anche persone “colte”, da cui non me l’aspetterei mai?
Ecco, in effetti il primo sentimento che provo quando la persona che ho di fronte usa il fatidico “piuttosto che” è: delusione. Come quando una persona amica afferma con candore di ritenersi eterosessuale, e peggio monogama ;), o quando una persona “di sinistra” se ne esce col tipico “Non sono razzista, ma… gli zingari/i rumeni/le nigeriane che sul bus urlano al telefono/quelli che chiedono l’elemosina…”!
La seconda sensazione che provo è: smarrimento. Quando penso a “piuttosto che”, a volte non ricordo più che cosa voleva dire prima. “Piuttosto che utilizzare quest’espressione in modo sbagliato resto zitta”: è giusto così, vero? Vero? VERO?
[…] Non è che sono scomparsa, è che mi sono laureata! [aggiornamenti] parole che lasci… parole che trovi ! [2] […]
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Mi hai fatta sorridere per la verve della conclusione, ma mi hai anche spaventata talmente tanto che sarei tentata di andare a scandagliare il mio blog per vedere quante volte ho utilizzato quel “piuttosto che” nei miei post. Mi trattengo solo perché sono ancora alle prese con un testo e non voglio fare la pignola, non stavolta 🙂
Mi sono persa un poco sulla riflessione di Superga, attendo approfondimenti 🙂
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Ciao Alice, quale onore la tua visita 😉
In effetti su Superga non mi sono spiegata benissimo e ho corretto or ora il post… Mi sono anche accorta che l’incipit era tutto tagliato… Pazienza, chi lo leggerà ora lo leggerà intero.
Dicevo che trovo che l’esercizio del sondare i rapporti tra significante e significato renda molto più interessante il nostro dover utilizzare dei segni…e giustifichi quei casi in cui uno è “bello” e l’altro è “brutto”, o viceversa.
Mi piacciono molto le parole “uragano”, “terremoto”, “maremoto”. Non mi piacciono gli uragani, i terremoti, i maremoti e trovo sempre molto sconcertante dover usare per definirli parole la cui musicalità mi affascina tanto. Oppure: adoro la parola “puzzo”, ma non credo che pronunciarla ad alta voce ripetutamente come ho voglia di fare ogni volta che la uso per altri motivi mi farebbe fare una gran figura!
Lo stesso ragionamento può venire applicato in altri ambiti, ovunque vi sia un oggetto che ne rappresenta un altro. Per esempio la faccenda di Superga!!!
—> ho sempre trovato magnificamente dolorosa la bellezza della chiesa juvarriana di Superga, dove nel 1949 è precipitato l’aereo del Grande Torino di ritorno da un’amichevole a Lisboa. A causa di questa sua bellezza, di quel giallo che si staglia contro il blu del cielo, di come sembra restare sospesa nel buio della notte, della vista che si vede da lassù… io non riesco ad odiarla per que che è successo 65 anni fa. La amo anzi profondamente e con profonda tristezza, e ricordo di aver pensato una delle prime volte che sono salita sul colle – spero di non sembrare blasfema – che forse è a un groviglio nello stomaco come quello che ci si riferisce quando si parla del “sublime“.
è un po’ più chiaro ora?
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Decisamente! Grazie 😀
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