Mi piacciono le stazioni della Liguria, lunghe: se arrivi in anticipo e cammini un po’ passi le sale d’aspetto che odoran di gente che dorme lì da mesi (vista viaggio, vista mare) e sei come in spiaggia ma c’è quel rumore di elettricità accumulata attorno ai cavi, attorno al baretto, e una canzone di Battiato lontana all’altoparlante (cerco un centro di gravità permanente…)
Ci sono tre ragazzi giovani, due al cellulare uno coricato e scalzo, ascoltano una cosa che parla di Milano (quando sono lontano voglio tornare – quando ci sono voglio scappare) e ci sono tre ragazze giovani, di quelle con le orecchie che spuntano dai capelli ancora umidi, e le canotte corte portate senza reggiseno. Mi danno del lei poco prima che passi un treno in transito.
Mi piace salire e prendere posto dal lato del mare, dove non ci sono graffiti, abbassare il finestrino e sporgermi, chiudere alle gallerie, ridere quando canto e il vento contro mi risputa tutto in faccia e sorridere a chi sale alle altre stazioni coi libri in mano, le chiazze bagnate sul seno e sul culo, le tristezze della fine della vacanza.
E vorrei averlo perso così il mio anellino leggero: nella scia di un regionale, o nel finestrino del freccia che ci condivide il binario, rubato da uno di quei tre gabbiani o rotolato nel budello di Varazze dove giocavamo da piccole a trattenere il fiato al sole e quando dovevamo arrenderci era perché era mare.
…
Tra pochi minuti mi accoglie la pioggia di Genova: maledetti quei carruggi che saranno puliti, benedetti gli odori amplificati, le mie puttane felici, Vico Cannoni e il vino a un euro o due, più il piattino di focaccia avanzata. Mi tremano i denti come a una ragazza… Rivederti è un punto rosso rotolante nei polpacci dei passanti.
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