Voglio incontrarti e parlare con te e parlare di te come quelle ragazze
parlano di Parigi
Con un amore superficiale, ma enorme
E se fossero in Côte d’Azur leggerebbero Musso, io voglio leggerti i segni dell’abbronzatura e citazioni stupide del Mark Fisher sbagliato, tu mi leggeresti cicatrici e quello giusto io ti accarezzerei piano i piedi, gli avambracci, dietro le spalle, i fianchi, le ginocchia la barba i baffi il contorno degli occhi. Tu diresti una cosa molto intelligente, come tutte le cose che dici
C’è un ragazzo giovanissimo che ripete una lezione sull’America
e un piano terra abbandonato con le finestre sfondate e dentro senza pudore rumenta e strati e strati di tappezzerie, anche in cucina
A me viene voglia di abitarli tutti questi posti che una volta erano casa per qualcuno, e ora stanno esposti alle passanti e alle stagioni e li pulisce solo il vento, a ripararli dal sole qualche ramo d’edera
E mi stupisco sempre della loro prossimità coi posti vivi, quelli sì, coi campanelli in terracotta e le tendine gialle e le persone dentro che ridono litigano lavorano da casa cucinano
Mi chiedo cose tipo Perché non ci andate voi, perché non vi allargate, perché non lo riempite di bambini che si nascondono il pomeriggio o la domenica, perché non ve lo prendete, perché non me lo regalate
Questa è la mia prima grandine a Genova. Ho tutto un terrazzo per accoglierla, ora, e un cuore felice che si chiede: quante cose nuove ancora possono succedermi, qui, che mi sono o non mi sono già successe altrove?
Mi sento non ancora completamente arrivata ed è perfetto, perché quando arrivo poi inizio a stare male e progettare un altro viaggio.
Sette anni, forse proprio oggi, forse ieri o domani.
E adesso che sei tornato, e che l’ho conosciuto, adesso che faccio l’occhiolino agli stranieri e poi salgono da me, adesso che ci abbracciamo in terrazza tra amici e dò le spalle al mare per guardarti lavorare, che metto le mani nella tasca di una vecchia giacca e ci trovo un pezzo di cielo e ventimila lire, adesso che le scuole sono chiuse ma i bar sono aperti voglio sentirti suonare e poi dormire, e quando ci svegliamo ricordo che ho finito il caffè
Un uomo grosso, le ciglia lunghe, che piange con dolcezza dopo l’amore e lei vorrebbe che ora le spiasse i pensieri
Un odore continuo di disinfettante
Il paesaggio verde, grigioverde, peggio che macaioso, invernale direi e quel pranzo in terrazza l’altro ieri ci aveva illuse
I giorni di sciopero, le cose che non cambiano molto, ma un po’ sì, un po’ di sghimbescio, nelle fessure – quando Tamara è contenta che io li voglia rivedere dal vivo e siamo tutte stufe della scuola a distanza
salto i pasti, salto le pastiglie, le pozzanghere, le riunioni – di famiglia e non
bevo molto più di quanto leggo, rido molto più di quanto canto, eppure canto
tu mi fai dentro il rumore che fanno i vetri quando il cassonetto si rovescia nel camion e poi te ne vai
tu mi fai dentro il rumore del jazz ma quel jazz che disturba, che ti viene voglia di fumare
tu mi fai dentro il rumore delle onde sui miei vestiti nell’oceano, mentre ti guardo come in un film
vorrei cambiare casa in fretta e non dovermene andare mai da tutte le nostre sigarette, i camatti, i bianchetti, la musica la storia la filosofia, la sessualità brasiliana la sessualità mia, la moda, parlare per ore di arte e non essere d’accordo su Picasso e Fontana, sapere che ci rivedremo
Sparisce dalla mia vista e mi viene il dubbio che potesse trattarsi di una richiesta di aiuto, mi sporgo dal treno e vedo la bocca dell’autista che ride, e un gesto che mi dice che la conosce, forse fa un giro per campagne con la figlia come ho fatto io questa mattina con mio padre – infilati tra i rovi con le gambe nude per rubare prugne davanti al cimitero
Mi sento così sola in questa città lunghissima che ho pensato addirittura di tornare indietro
ma sono io che mi son fatta il vuoto attorno.
Non ho concentrazione, dondolo da un’interpretazione all’altra come questa chiatta e dimentico che ho dietro un mondo di persone che si accorgono di me
(devo solo voltarmi)
(Ma ho il sole in faccia e c’è il rumore delle gru del porto e dei locali di carne alla griglia e mi scalda i polpacci
e tira vento e mi porta i capelli davanti agli occhi e ho un certificato in borsa che dice che ho scelto di non vedervi mai più)
Una pillola per il ferro, per batterlo finché è caldo, o storcerlo a freddo, e comunque farmi male
Una pillola per tutti gli animali che non mangio – una rinuncia buona ce l’ho, una mancanza nobile, il resto mi sembra che sto surrogando il mondo e riducendolo alla geometria curva delle relazioni tra la mia bocca il bicchiere e un cucchiaio: io sto lì, in quei dieci centimetri d’area, sospesa su una tovaglia antica
Vorrei che questo cazzo di elicottero che ci vola in testa ad ogni ora del giorno fosse un elicottero di quelli che ne passano ogni tanto d’estate e dal mio scoglio giro il collo e vedo un filo di fumo
Vorrei che ci fosse un incendio piccolo, senza vittime e troppi danni, o vorrei che la smettessero di urlarmi nelle orecchie il loro credersi in guerra
E quando finalmente andremo a camminare io mi fermerò con le spalle alla Val di Fassa e conoscerò già quelle pietre per averle ritagliate con meticolosa attenzione e averne fatto un collage surrealista
Ed è stato forse toccarle di forbici che mi ha fatta decidere, e ora voglio toccarle anche con mano, devono essere fredde e splendide e avranno un loro odore specifico che mi ricorderò a lungo e desidererò imbottigliare per spruzzarlo su questi fogli pieni di colla e speranza
I miei seni non grandi nelle tue mani piccole (vedersi come in un film in una città vuota in fuga dalla polizia)
Me le ricordo bene le tue mani, se ci penso le vedo nell’aria (o dentro), forse le ho capite a tavola, quando tra un piatto e l’altro ti tendevo la sinistra e tu mi davi la destra, e mi massaggiavi d’istinto quei punti che dice la medicina cinese – e non era la stessa cosa toccarci di fronte, come all’ostaia
Ricordo che mi piaceva il mio gesto, non lo facevo per quello!, ma lo facevo e poi tu rispondevi e io pensavo Che bello! e ti imparavo le mani, e vorrei vederle adesso che le lavi forte cento volte al giorno e sentirci su la quarantena già passata, la quarantena da passare, lontani
Ed è questo che fa (da sempre?) la gioventù: si riprende i ruderi di cui noi non sappiamo che fare, non ha paura a sfondare le porte di legno sprangate, a salire le scale a fianco ai ratti, a sporgersi dalla torre più alta di Villa *** e ballare, anche se noi non sentiamo la musica.
Si riprende le spiagge private dopo l’esproprio della mareggiata: trova comode le poltrone sfondate e fuma sui tavolini pieni di sabbia, appoggia i piedi sulle assi divelte e non si cura dei buchi nei tetti – ci fa le docce nei giorni di nuova pioggia.
Guarderò con occhi che ridono a tutti loro quando potrò ri-incontrarli. Magari chiederò con aria complice un po’ di posto su quella balaustra marcia sopra gli scogli, me lo daranno controvoglia come si danno controvoglia le cose alle persone adulte, non me la prenderò.
Mi chiedo come e quando e dove tornerò a ballare. Vorrei fosse già ora, qui nelle uniche due stanze che ho – che differenza fa con la Rampetta? C’è lo stesso odore di chiuso, se apro la finestra entra il fumo dei vicini, semplicemente non gira altra roba, ma posso girare io fortissimo come giravo e non ho mai sbattuto in nessun tavolino, in nessuna gamba, nessuna banconota nessun naso nessuno sguardo. Non dovrò nemmeno bere quell’acqua putrida che mi ha servito ghignando il socio di Pascal…
(Ci sono giorni che i ricordi fanno meno male di altri, e diventano quasi progetti)
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*** il nome della Villa è stato censurato, per salvaguardare la possibilità che nuovi giovani la scoprano quando questa quarantena sarà finita
E mi è venuto da pensare al mal di testa come a un collage: ho pensato di rovesciare il foglio – la fronte in basso – e ritagliare subito dietro gli occhi per buttarlo (o tenerlo nei ritagli, chissà mai che un giorno una sciocchezza simile – un’indigestione – non mi possa servire)
·
au mal à la tête
Et j’ai pensé au mal à la tête comme à un collage : j’ai pensé de renverser la feuille – le front en bas – et découper juste derrière les yeux pour le jeter (ou le garder avec d’autres coupures, va savoir si un jour une telle bricole – une indigestion – me servira)
Vorrei sistemare la stanza (possibilmente in uno schiocco di dita) [e continuo a chiamarla stanza ma è casa: buia, umida, prigione/ospedale, ma casa]
Vorrei trasformare la poesia di Tomas Tranströmer in un collage
{E questa cosa che ho ripreso a scrivere quasi mi commuove, questa sera studio arabo online, e magari presto finisco di leggere Levi (Carlo). Forse è che le immagini mi aprono gli occhi quando nelle orecchie ho il pieno di presenze e voci, ma nel silenzio so ancora ritrovare le mie parole}
E poi passo da una sedia all’altra e ho sedie sparse e alcune mi servono per i giornali e i collage iniziati su altre mi prendo la punta e ho dietro il mouse, il pc, una è alla finestra per chiamare E e colorare e leggere libri (quasi mai) e risparmiare qualche centesimo di energia elettrica
E ho uno zainetto per le mie telefonate lunghe, ci metto dentro il telefono e lascio che escano gli auricolari, e vado in viaggio dentro casa in compagnia
Arrivo alla finestra in ritardo, non riesco nemmeno più a ricordarmi del sole, mi ricordo invece tutti i sogni, tutti assurdi.
(Non mi piace questa scrittura a blocchi della nuova app)
(Non mi piace che i miei pensieri già abbastanza separati siano divisi da ulteriori frecce e simboli e parole sulle parole)
Mi metto in maglietta, con le maniche alle spalle, quelle spalle che con biondo grano immaginavo partenze di frasi (vedi i commenti all’articolo precedente), e chiudo gli occhi. Arriva musica dalla finestra di sotto e immagino sia qualche ragazzino sciocco sugli scogli dietro di me. Sento l’acqua per i cereali che bolle e la ignoro, resto al caldo e fingo che sia la schiuma tra le rocce
Tutte le mie giornate qui passano come tra un mare di finzioni… Una finzione di scuola al mattino, una finzione di amicizia al pomeriggio, una finzione d’arte la sera e poi fingere di sgranchirsi le gambe, fingere di dover fare la spesa, fingere di non essere preoccupata per mia madre infermiera, sorridere a mia nipote e al mio nipotino per nascondere quanto mi mancano
Ho anche una finzione di basilico sul davanzale fuori
Quando vedo un raggio di sole mi tuffo alla finestra e non mi ricordo mai che:
alla mezza è ancora solo il riflesso sul quinto piano del palazzo davanti, i miei venti minuti sono all’una e manca ancora un po’.
E quando è l’ora mi appoggio al vaso che ho capovolto, ci metto su un cuscino e quasi mi sdraio nel vicolo, mi tiro su le maniche chiudo gli occhi e guardo a sud, e immagino il mare
Ho voglia di scrivere una poesia
La scrivo sul carnet dei biglietti dell’autobus
La scrivo in zeneize
La scrivo su quell* che hanno paura a fare domande
perdendomi tutte le risposte
(che tanto non contano un cazzo)
La lascio a due terzi
e vado a mangiare
Mi devo fermare a pagina 2 di Bagheria perché mi si affollano in testa le immagini del libro in forma di collage e si sovrappongono a certi luoghi di Palermo e alla rabbia tenace con cui li ho conosciuti e ho l’impressione che se non mi fermo e non torno alle mie parole mi esploderà la testa dal lato finestrino e ne usciranno danzando forbici colla cartacce coriandoli (confetti!) e navi con bambine bionde con vestiti a fiori e ufficiali americani e cioccolata piselli bastoncini di zucchero a strisce bianche e rosse e poi la notte blu i mitra grigi e la polvere bianca o la morte idiota con cui giocare baciarsi prendersi a calci o coltellate e infine una carrozza una villa del Settecento in rovina una città o meglio due e un’isola
Una signora parla di una figlia disoccupata e di un carabiniere disonesto. Lo dovrebbero irradiare dall’arma – dice. E io vorrei godermi la poesia ma quello che succede è in realta che immagino un’arma (probabilmente una spada), e i raggi del sole di quei paesaggi di squarci tra le nuvole, e si sovrappongono lenti e c’è un carabiniere strappato in un angolo e chissà come ruoterà
Lascio che tutte queste immagini finiscano a mollo
Salgo sulla Strada Nuova leggermente in ritardo rispetto a giovedi scorso (che già ero in ritardo rispetto al giovedi prima, eccetera eccetera), e ci siamo solo io, due piccioni, e tutti i mostri e i leoni a guardia delle entrate dei Palazzi dei Rolli
Mentre arriva un uomo di lontano sento arrivare anche il bus, e corro in un vicolo di cui non ricordo mai il nome, ci siamo di nuovo solo io, un ratto, e una corrente di puzza di smog che scende dalla galleria Garibaldi
Il mattino (come la notte) è quando puoi incontrare tutti i mondi che cerchi di non vedere durante il giorno (animali e mostri, odori invece ce ne sono sempre, sempre diversi, sempre possibilmente cattivi ma ci si affeziona anche a quelli)
Il mattino come la notte è ancora buio e inverno, ma ci sono donne, e operai sardi, e sudamericani, che sembrano non far altro da tutta la vita che girare a quest’ora svegli e puliti e truccati da tre ore (e forse mica sembra solo)
Mi fanno male le spalle per tutti i libri che ho nello zaino anche se già so che finirò per guardare semplicemente dal finestrino al mare; e per la notte insonne di pensieri su tutto quello che non va e non riesco a far andare meglio
Ma resto lo stesso dieci minuti in piedi nella corrente gelata a sbirciare nel bar per vedere se compare. C’è il ragazzo coi baffi, ma non lui.
Infine mi avvio al treno con in mano la mia crostatina confezionata. E cerco di essere felice perché magari ha cambiato turno, ha cambiato paese ha cambiato città, solo che
Le piccole fatiche quotidiane di tutta questa gente, che possono sembrare insignificanti ma scavano ogni giorno una ruga di più nelle nostre vite:
Un uomo che attraversa il vagone zoppicando. Una ragazza che scrive e riceve messaggi e nessuno la fa sorridere, e ha il cappuccio pizzicato male dietro la schiena. Un anziano col cellulare coi teschi. E io ho una gamba piena di morsi
Confondo vocali e consonanti, sarà il corso di genovese ieri sera o che mi metto a guardare una coppia di adolescenti che si sistema in motorino lui lei uno zaino nero un trolley rosso una borsa di tela bianca con attaccata una mollettona per capelli
Poi alla stazione lui non c’è, forse è dietro in cucina – vedo ridere la cuoca, sono felice per lei ma il mio croissant al lampone sa di stantio oggi. Com’era in zeneize? Pösu.
Chino sul giornale per riposare o leggere meglio e battere il vento
Io chiedo a Kader un passaggio per Brignole perché ho paura di perdere il treno se aspetto il 39, e parliamo di come ci han tolto la connessione col tempo (giorni liberi spaiati, orari pure), e del fatto che l’efficienza conta più della morale (tutte le mie riunioni e quel poco tempo classe)
Alla C House le nostre parole diventano solide (o liquide come i caffè e i cappuccini ma comunque reali) e mi siedo accanto a un ragazzo che ho già visto giovedì scorso, e quello prima, ed è anche questo sapere che farai sempre lo stesso orario: avere un rapporto con chi lo condivide con te
Il barista allegro non c’è e si sente nell’aria il silenzio. Quando esce dallo spogliatoio ci cambia il giovedì e lo capisce, e capisce che siamo una specie di pubblico e lo aspettavamo sulla scena e allora vai di sfondamento della quarta parete (quella d’oro kitch del bancone o quella di finto legno del piano brioches? quanto poco conta l’estetica quando lui sorride! passa in secondo piano anche la marmellata zenzero e limone ancora calda che mi accarezza la gola), mi chiede perché rido sotto i baffi
Avrei dovuto chiedergli: quali baffi? Oppure esclamare naturalmente: eccoli quii sentimenti oltre l’efficienza! Invece ho voluto essere chiara: perché il giovedì parte meglio, così e aggiungere: prima ero disperata – che mi è sembrata un’esagerazione mentre la dicevo ma anche no, parte meglio davvero con le sue battute una giornata che poi ti mette sul treno delle 6 e 30
e ho voluto fare un omaggio a Kader e creare connessioni, così quando il ragazzo se n’è andato gli ho confidato che lo avevo visto che rideva sotto i baffi pure lui (e li aveva veramente!) e quando me ne sono andata io ho augurato buone feste, ho spiegato cosa ci facevo lì di giovedì, ho dato un appuntamento (al 9 gennaio) e ci siamo salutati in un bel francese e sono corsa al binario e tutto è partito meglio, anche il treno nonostante il ritardo, anche l’alba partirà presto nell’angolo sinistro del mio finestrino, dietro il riflesso arcobaleno dell’ombrello
Mi piacciono quell* che dicono presepio, perché presepe mi sembra più latino (e non lo è)
Mi piace mangiare diversi popcorn alla volta e mettere in bocca anche le dita, così posso leccar via il sale indisturbata
Mi piace anche leccarmi le dita e le mani sporche di cibo se capita, e disturbare, non importa
Conosco quella sensazione di corpo minuscolo sulla mia pancia, ciglia lunghe e ferme, bocca a cercare la tetta nel sonno, sospiro poco prima di svegliarsi e via a cullarlo soffiare e canticchiare così la mamma continua a dormire di sopra
C mi sa che sta per Coffee e pensare che Caffè è talmente un bel nome!, per il luogo dico, non (solo) per la bevanda
Insomma fanno le cose alla milanese (sotto l’insegna c’è scritto che vengono proprio da lì) ma esce un profumo di croissant che non ne ho mai avuta così tanta voglia e visto che oggi sono in anticipo me lo concedo (vegano al lampone, quello che hanno in tutti i bar) e niente il tipo al bancone è semplicemente splendido, splendido, alle sei ha una battuta (delicata e simpatica) per tutt* e conosce i suoi clienti abituali [“direttrice, come va?”] e coi tempi genovesi li vuole conoscere ancora meglio [“AD, ma qual è il suo nome?” – “Laura”] e parla inglese come un inglese e io lo vedo che questo turista è imbarazzato di sorpresa e sta rivedendo un attimo prima di partire tutto quello che ha pensato fin’ora dell’Italia, dice anche Sir e non sta sfottendo, non sembra un manuale scolastico, è che si trasforma davvero in un gentleman per un attimo e poi torna mio fratello, un dipendente, un collega, un padre, un amico e non si ferma mai, non si ferma mai quest’allegrezza, ti mette davvero di buon umore!
Sono stata qua tre giorni fa [tre giorni che in mezzo è franata mezza Liguria (e mezzo mondo) e io ho avuto paura a partire per Marsiglia] ed è scoppiato un autunno giallissimo che ti mette un sorriso al cuore… Arriva dopo l’inverno e sotto il cielo azzurro, come fosse primavera
Intanto davanti a casa di Camillo Sbarbaro un vecchio con gli occhi azzurri scende dal marciapiede e quando capisco che è per farmi passare e non riesco a smettere di guardarlo e sorridere lui mi saluta rispettoso e io ringrazio improvvisamente timida
Poi lungo il viale alberato tappeto di foglie scende in moto uno che urla a se stesso cose lunghe con la A, e mi fa molto ridere, ed è una bella giornata
Succede che all’alba poco prima di Recco (direi più o meno alla ciappéa) se non ci sono riflessi, il golfo sembra che lo puoi attraversare a nuoto e il monte di Portofino è così vicino
Questa volta l’alba beccarla a Nervi e comunque ancora a Pieve non ha preso il mare
Sarà che è nuvoloso o che io non ricordo come funziona l’inverno – mi sembra questo il grande fallimento della scienza, che io non riesca ad applicare gli studi fatti sui moti di rotazione e rivoluzione al paesaggio che vedo dal treno o dal porto quasi ogni giorno
E io vorrei lasciare almeno questo alle mie classi: se non come si dice in francese “ho lavorato per N anni nel campo di” almeno come ci si presenta a un colloquio; se non come si chiede l’ora in francese almeno come si chiede la strada, e che viaggino…
Alla fine l’ho beccata l’alba, dopo e nonostante il nervosismo se non altro ce l’ho fatta a beccarla! Ed è successo a Brignole! Un attimo il cielo era buio, e quello dopo era l’alba! E bisogna guardare in alto: l’alba non è sul mare, è su in cielo (diventa azzurro elettrico come in un video musicale, un’apocalisse di ghiaccio)! Poi scende subito a Puntachiappa, ed è come un tramonto ma dalla parte sbagliata… E c’è una nave-container che non si è accorta di niente e ha ancora accese tutte le luci, e sembra una crociera per le merci
Prima di uscire mi infilo in tasca un futuro distopico in stile fumettistico, l’autore è genovese -pare- e i contenuti si adattano ai miei giovedì mattina
Truccarsi tra Brignole e Sturla ma il rosso del bianco degli occhi, quello, rimane così
Odio i prudenti, anzi i mezziprudenti, quelli che attraversano col rosso fino a metà perché non c’è nessuno ma poi si fermano perché c’è lontanissima un’auto che passerà e non si accorgerà nemmeno di loro
E dove sono le scale mobili al binario 9
E parlare con la macchinetta un po’ mi calma, Ce la faccio da sola nessun personale in divisa, o Questo dovrebbe essere il biglietto veloce che cazzo sono tutti questi simboli di porcellini e altre freccette che uno può premere
Eppure sette giorni fa non è andata male in classe, forse ho bisogno di questo nervosismo urbano per poi amarli quando suona la campanella (Ma chissà se quello di informatica mi farebbe il favore di scambiare la prima ora con me)
Salendo sul bus dico “un caldo porco” ma ovviamente non fa un caldo porco, fa il caldo normale dei bus d’inverno quando funzionano
E il tizio vicino a me tiene le gambe così larghe sul 18 che io devo stare a piedi uniti e quasi cado a ogni fermata: faccio come nelle vignette femministe e mi allargo di forza pure io, gli passo la gamba sinistra davanti alla sua destra, e magari capisce
[E mi fanno pena questi che hanno imparato a memoria il loro numero di treno, e capiscono subito che il cambio binario riguarda noi… È una cosa che proprio non voglio diventare, una che impara a memoria il numero del suo treno]
Della lettura mi piace questa cosa che anche se ho 32 anni ancora ci scopro dentro sensazioni, fatti, modi di raccontare e..parole nuove!
Nei primi capitoli del romanzo di Murakami Kafka sulla spiaggia nominano il duralluminio a più riprese. E dire che è un sostantivo che sembra fatto da un bambino, da un Rodari! Invece esiste e nel Giappone dagli anni ’40 in poi lo conoscono tutti, gliel’ha portato la guerra. Io sono fortunata a farci amicizia nel 2019, e che me l’ha portato la carta.
A Principe mi chiedono dal finestrino di chiamare un uomo, l’uomo sale, con questa donna secondo me erano innamorati alle elementari e ora a lui spiace non essere stato fedele ai tempi che erano
A Brignole salgono due che uno ha gli occhi azzurri e comunque si mettono a fianco a me a parlare dialetto e io sono felice ogni parola che capisco e felice per tutto quello che non capisco – che vuol dire che si tratta di una lingua nuova e mi ricorda che son qui da solamente 5 anni e mi fa venire voglia di imparare ancora
A Quinto mi chiedono il biglietto e prima di Nervi non mi è mai successo
A Nervi guardo o mâ, l’è verde l’inverno, e decidete voi di che parlo
Finalmente ho trovato una parte bella di Recco (che è una città orribile e fascista con un buon mare e un’ottima focaccia), ed è la prima parte (arrivando da Ponente). C’è un palazzo signorile di quelli a fasce orizzontali arancione chiaro e arancione scuro e altre case belle e terrazze invidiabili e il porticciolo e un piccolo ponte (illuminato però in modo pacchiano) e poi niente inizia l’edilizia anni sessanta (ma sotto quel cemento c’è della prescinseua che quasi bolle…)
Quando ho detto a Stavros che ogni giovedi mi sarei alzata alle 5 per andare a lavoro mi ha detto Sì, ma fa alba sul mareE niente invece no, non mi è ancora successa, fa alba sempre in galleria – ci entro di notte e ne esco di giorno
*edit: Possibile che il mio amico greco intendesse questa luce qui?
Mi siedo di fronte a quest’uomo, ne indovino la nazionalità. E quando parliamo del mare, del lavoro, della sveglia al mattino presto, in lui riconosco le stesse espressioni (verbali, del viso) di M che veniva dallo stesso paese e mi chiedo se è possibile che un intero popolo abbia gli stessi sorrisi e occhi o se semplicemente – con meno orientalismo – ho trovato due di quei sosia di cui tanto si parla (e si assomigliano per i modi e di cuore, non per estetica)
La ragazza del sedile davanti dice all’amica “Quella è fuori come un telefono” e subito mi stona ma poi penso che davvero questa generazione ha il telefono sempre fuori e al citofono probabilmente non va quasi mai, perché ci si vede direttamente in strada o ci si scrive da sotto
E niente ancora con questa cosa bella e affascinante che la lingua riflette la vita
Ecco, sono di nuovo insonne. Sento il rumore che fa il mio cervello nella notte e poi dopo uno scricchiolio mi crolla il palazzo sopra e sotto e io chiamo piangendo la mia famiglia e lui. Quando le telefonate cominciano a diventare troppe e troppo patetiche, anche la mia paranoia si stanca di me…
Non capisco cos’ho… Forse: mangiato troppa vellutata di porri. Oppure è stata la decisione di comprare le uova o è l’incredibile commuovente mail di Adele scritta in un francese pessimo e inventato e proprio per questo coraggioso, incantevole.
Giù si menano
Domani torna
Domenica parto e
Cambio casa, vado a vivere a dieci metri da qui
Ogni giovedì scenderò da quel soppalco alle 5 e farò una doccia araba e nessuna colazione
Scrivo perché le mie mani lo fanno, non ho alcuna intenzione
Io credo che stanotte abbiam dormito insieme senza saperlo, perché mi son svegliata con gli stessi dolori alle spalle di quando stavo da te
Non ho ancora trovato il cuscino giusto per me, sai? Ma ho trovato un braccio che non mi stava scomodo e però non aveva i tuoi tatuaggi né il tuo odore né i peli bianchi, né attaccato quel collo sempre teso nello sforzo di vedere un po’ più avanti – per darmi ragione, ma senza ammetterlo
Né sopra quel collo teso c’era una bocca che trema dall’emozione, baffi sì ma più morbidi, più giovani, non quel naso imperfetto e bello, non i tuoi occhi tristi che mi hanno vista dentro o quelle sopracciglia trasparenti
Anche lui aveva pochi capelli
I capelli non mi interessano
E sotto quei visi che amavo o mi sforzavo di percorrere con le dita c’erano certo due cuori diversi, entrambi entrati in contatto col mio, e uno che il mio era difettoso e non integro e riparato a mano non se n’è mai accorto e il contatto era frettoloso e disattento e anche svaniva presto la scia e
io credo che stanotte abbiam dormito insieme e anche se ho i dolori alle spalle (e il cuscino sbagliato) è bello essere a casa
Io ho avuto una settimana disastrosa in cui tutto è esploso ma come fuochi d’artificio
In modo spettacolare ho capito che devo darmi una regolata
Trama dello spettacolo: ho accumulato ritardi a valanga a ogni appuntamento, e slavine di disordine e cibo e venerdì al corso di greco non sapevo più niente ma per la prima volta ho letto e la bomba che è imparare una nuova lingua da capo è una roba fortissima e rossa e ve la auguro. Ho portato alla festa una mezza bottiglia di vino, che mi sono bevuta tutta. Sono tornata a casa discutendo con mezza città sul numero di p da mettere nella parola tappullo e poi ho sentito che era giusto fermarmi in un altro bar. Dove ho cercato per ore di far inventare a Enrico un’etimologia del verbo avvaloro, di cui mi ero innamorata. Ho conosciuto due ragazzi di Amsterdam. Il bar ha chiuso. E io ero uscita con in borsa solo le chiavi dell’associazione dove insegno italiano e non quelle di casa, accorgersene dopo tutti quei vini e liquori significava suonare al vicino pazzo che mi ha aperto e ora lo amo e provare a sfondare la porta con una bottiglia di plastica; con la tessera coop; con la tessera di trenitalia; a spallate; con le preghiere. Non ha funzionato niente, e ho chiamato i vigili del fuoco e mi hanno detto che senza residenza o senza contratto o senza un altro documento che dicesse che io abito lì non mi avrebbero aperto. Sono andata a dormire a casa di uno sconosciuto e abbiamo parlato di traduzione fino alle 5 del mattino, io mi sono alzata con le sue sveglie alle 8, lui non si è mosso – gli ho spiato il salotto l’agenda il terrazzo la vista, gli ho lasciato un biglietto e me ne sono andata. Ma il portone del suo palazzo era chiuso a chiave da dentro. Ho urlato a due spacciatori se potevano aprirmi. Ma non abitavano lì. Ho suonato a tutte le porte, e mi ha aperto una prostituta e sono riuscita a uscire e i due spacciatori mi hanno offerto un caffè doppio e ora amo anche loro. Ho dichiarato a nome di P. che sono mia ospite e falsificato una firma e i pompieri hanno spezzato due lastre al bacino per farmi rientrare a casa, dove ho finalmente preso il mio blocco degli schizzi e ritratto Genova con infinito amore e un’infinita stanchezza e secondo me è proprio così che vengono meglio i ritratti
La sera l’ho incontrato più o meno per caso e abbiamo parlato e pianto; questa mattina mi sono svegliata che avevo in mano una brushpen nera immaginaria e ora sono su un treno e sono non le scintille ma la polvere che dopo il boato dopo il rimbalzo dopo il vuoto d’aria e lo sgomento torna piano a terra perché si possano contare i danni
Ho pensato per due giorni di scriverti che anche tu mi manchi, scrivertelo in qualche modo solo non avevo ancora deciso quale, e quando, non da ubriaca, non al mattino, non la notte, non mentre lavori, poi ho letto una pagina di romanzo (Starnone, Labilità) che mette insieme l’ossessione di una persona per le parole di qualsiasi tipo e la bellezza di quest’ossessione e ho pensato ai miei quaderni pieni di parole di tante lingue e a come imparo poche corte brevi cose nuove sul mondo rubandole alle bocche di quelli che incontro, ai loro lessici famigliari, mi sembra in effetti di conoscere intere famiglie così, popolazioni, e alla bellezza di questo procedere lento di piccoli istanti, segni, impronte su spiagge neanche troppo romantiche, e a scrivere racconti e poi riscriverli cercando un sinonimo ogni parola usata tranne gli articoli come per quel torpedone della linea S (Eco traduce Quéneau, Esercizi di stile)
e ora sto pensando di scriverti che non ti manco, che ti manca la sensazione di non essere più solo (così mi avevi detto poco prima che tutto iniziasse a finire), ma io non ti manco e non ti piacevo, cercare Palermo nel repertorio dei suoi matti e non – soltanto – negli stucchi del Serpotta, trovarla nelle vie laterali, nei matrimoni e nei cimiteri, nei piatti enormi di pastasciutta agli angoli coi luoghi delle sparatorie – il sugo dello stesso colore del rosso del nastro bianco e rosso della polizia, poi nei denti marci dei clienti fissi di Ballarò, andarci al mare assieme o alle catacombe,
Una minuscola tarma cammina sul mio quaderno degli appunti e sulla mia immobilità malata, stanca, stupita di autunno e bronchenolo, seduta
Devo decidere che fare e dove e devo pensare se innamorarmi e devo coprirmi bene e mangiare mentine e disperarmi per cosa combineremo all’orale alla maturità io e la 5E (sempre che un’allerta arancione non ci stronchi prima)
Poi dovrei bere un bicchiere di rosso, quel nebbiolo di Paul che inizia a esser buono dal terzo gotto in poi – non prima, o un Camatti la mattina o leggere il libro in francese che però ha in mano P
O potrei chiamarlo e chiedergli di venire a suonare Dalla da me (ma..)
Queste due settimane, questo ottobre sospeso e ventoso, questo mare bianco dietro ai finestrini, tra le gallerie, tra le case alte di Sturla e di Quinto, le ville di Santa: mi uccideranno
E i cassonetti dell’immondizia sono chiusi col lucchetto…
Siedo alla panchina della stazione accanto alla mia alunna più temuta e a me sembra una bambina
Si tatua le braccia con la penna bic e sulla caviglia si annota in blu: Bruciarli
Sono certa che attorno ci siano altre ragazze di cui ho scordato visi e nomi, se mi salutano per prime bene, e poi c’è quell’unica educatissima ricciolina che si è alzata in piedi in quarta – e come dirle che non mi è piace chi mi tratta come fossi un generale?
Non vedo colleghi, e dal vagone scendono studenti di scuole ancora più a Levante della mia
Io prima di tornare a Genova mi fermo al mare, e lavorare così lontano acquista un senso
Oggi primo giorno, ho deciso che ci metto poesia in questi viaggi e questi ritardi o muoio, mi penso dall’alto, attraverso la terra dentro la galleria, guardo all’andirivieni di treni nelle due direzioni che se rallenta uno rallentano tutti come alla solidarietà nei cortei o alle onde del mare che ho sulla destra
E osservo gli altri marinai…
Quest’uomo qua davanti per esempio, a cui strappo un sorriso e un fazzoletto: ha gli occhi verdi come il tramonto ieri sera ad Alessandria, e i ricci bianchi e le mani grosse e mi sarei innamorata di lui due lustri fa. Quando se ne va mi dice Salve – come i francesi dicono Salut – e sono già (di nuovo) a scuola
Giuro non l’ho cercato, ascoltare dieci volte il suo vocale con risata così presto, volevo solo bere e rallentare i pensieri,, e certo ho deciso di farlo in un posto in cui è facile incontrarsi (ma in quale posto a Genova non è facile incontrarsi..?) ma non pensavo che poi dopo quella sera, dopo il vino e il camatti e il whisky e i taralli e dopo gli abbracci e i cani e i titoli delle canzoni chiesti ai tecnici dell’Amt al semaforo, dopo che mi hai prestato la tua unica felpa e io ho baciato il tuo unico amico, dopo che To se ne è andato ululando e io ho preso chissà che strada da sola, dopo che a rivederci abbiam mangiato tre focaccette sciocche e le abbiam pagate aperitivo, dopo il libro, dopo le promesse, no, non è vero, forse dopo il libro le patatine le promesse un po’ ci pensavo ma comunque giuro non l’ho cercato, insomma chi l’avrebbe mai detto che tutte queste A grassissime in fila ad altissimo volume dalla tua bocca alle mie orecchie mi innamorassero così tanto, mi modificassero un po’ le notti e le giornate, i propositi, le idee
Quindi anche se non ne avevamo, un anno fa era ancora questione di vergogna. Mi sembra passata una vita e che son diventata donna, in mezzo il femminismo e una coinquilina che non sa di esser bella, uomini, aborti, il lavoro, la disoccupazione, l’amore, e – non so bene dove – se ne è andata quasi tutta la vergogna, forse -nuda- a Nervi
So perfettamente cosa potrei scriverne (certi numeri che ritornano o lasciarsi in città di frontiera o minacciare la guerra civile) ma non ho voglia di mentirvi né di nascondermi e preferisco bere e ridere con lui fino alle lacrime, sfotterlo, accettare i doni di altri disastri
Il micio nero di oggi che mi viene incontro in salita, ci guardiamo, facciamo i gatti entrambi e passiamo oltre. Due zeppe zebrate in una cassetta dell’insalata, una puttana molto bella anche qui all’angolo: ascolta musica. (Te l’ho mai detto che per giorni e giorni ha girato qua sotto un frigo bianco quasi nuovo, che aveva in alto un adesivo NO TAV? Si è fatto sotto il ponte tutti gli angoli e le angolazioni, e poi se lo son portati via.)
Non ho visto se c’era come sempre la scritta “ar!”, mi sa che a sto viaggio mi guardo dentro più che altro, e c’è un movimento come quello dei due gatti, quello nero ed io, cose che tirano in direzioni opposte, e un sorriso finale ma che sa di solitudine ed è nervoso, diventa bestemmie coi due autobus persi
Lingue varie giù per salita degli Angeli e un sole che picchia di nuovo forte. Le conversazioni del mercato (“ma lei è dove prima c’era il cinema?” – “3 pezzi 1 euro, ragazze!” – “lei che è magra, guardi lì, venivan 18 li regalo a 10”) e le solite scritte sui muri più una: DEVOVENTRARE (sì, con la V in mezzo poi corretta) e sotto anche DEVO ENTRE, tracce di un quartiere operoso di gente che se non ha fatto le scuole ha fatto tutt’altro e molto… Da una nave da crociera si sente gracchiare “Prova prova sah sah sah” tre o quattro volte e io mi immagino le facce attonite dei turisti russi. Il mio ristoratore senza cuore è al bar sul retro. Un uomo indiano mi dice sorridendo “Buongiorno”. Faccio via Pré ad occhi chiusi perché l’ho presa nell’ora in cui il sole passa tra i tetti vicini. Quando arrivo a casa c’è ancora l’impronta di ieri sera di te sul divano
Ho pubblicato una decina di cose che semplicemente non mi ero mai presa la briga di trascrivere dalle chat e le note a qui. L’ho scritto prima a M e lo scrivo ora, ché non so se poi si nota. (Non che io voglia per forza che si noti e venir letta, mais bon.)
Strada oggi fatta a testa bassa, denti stretti e bestemmie. Walid Ben Mansour non ha le palle, dicono. Ben vuol dire “figlio di”, e anche il sig. Mansour si trova, suo malgrado, su un muro alla Darsena. La strada di casa è piena di rumenta, ma i miei vasi di fiori sono tutti al loro posto.
(Io sogno Palermo per farmi passare questa giornata e – a volte anche se sembra incredibile – questa città)
Oggi Genova aveva addosso la luce dei tramonti dolci… Io ho preso un bus attraversando a casaccio, un bus pieno di Genoani – genovesi – e c’era quest’uomo che spiegava dove passavamo alla donna seduta davanti a me (mi sembrava di leggermi). Sono scesa alla Darsena e ho rincorso una borsa blu. Sono salita in via del Campo e a casa, ed era tutto come sempre: molto bello, e ti pensavo
Per una volta passare da su, da dove il matitone è ancora più enorme, e trovare le fermate dei bus quelle chilometriche, dove qualcuno ha aggiunto una sedia di paglia. E le promozioni di altri supermercati e altri modi di abitare questa città alta e lunga…
Da tanto tempo non facevo un viaggio lungo in bus, un viaggio lento. E mi metto sempre dal lato finestrino e anche se leggo ogni tanto guardo fuori la montagna ligure, la campagna toscana, la campagna laziale. E c’è sempre qualcosa da vedere, un fiume verde chiaro, il modo in cui il verde scuro dell’edera si prende in altezza tutto il marrone di una valle bruciata dal fuoco, abitazioni pastorali con le finestre piccolissime, animali, due asini in salita e nessuna traccia d’uomo; o una galleria in ferro battuto. O quella lunghissima distesa di vivai e piante di tutte le forme. Ancora panorami da Fontana, e girasoli. Poi improvvise le case e capisci che sei a Roma e all’immensità dei prati si sostituisce l’infinitezza di questa città (Che attraverserai solo di striscio per andare a Oriolo, dove ti aspettano 40 donne, amiche, compagne)
Ogni tanto anche se posso mi dimentico di guardare il mare (E penso che è perché sono più genovese di un tempo, e ora so che al mare ci vivo) Però guardo sempre i panni stesi perché vengo da una città dove appenderli in facciata è indecoroso e le mutande pulite le nascondi dietro le lenzuola
La luce dentro il mercato è accesa, le mele sono esposte, mi dà come l’idea di un luogo abbandonato ma solo per poco
Inseguo una luna enorme tra i ghirigori dei lampioni e finisco al porto dove una nave della Tunisia Ferries spalanca la sua enorme bocca bianca sulle auto dei viaggiatori, dopo i controlli
Due ragazzi africani dormono in una piazzola
I lavori in corso sono diventati l’interscambio Dinegro, leggo i prezzi del posteggio ma non saprei dire se sono buoni o no – dietro di me splende rossa la scritta Kimbo
Intanto ultrà stranieri mi regalano immagini di altri porti
E scopro una stazione nuova, dove han piantato un roseto in delle vasche da bagno…
Tu mi dici: “mi piace passare del tempo con te”; oppure fai un video di me nuda sugli scogli e del mio seno e del monte di Portofino; o poi: “non mi abituerò mai” e: “mi sorprenderai sempre” e: “mi piace vederti godere”. Io dico spesso solo tanti “ti voglio bene” e “sono felice”. Io che avevo un sacco di parole tristi, non ho parole per l’amore. Uso certe frasi fatte e facili, o descrivo le azioni e la città dalle tue parti, ma non ho vere parole per l’amore.
Però ti sento tutto con la pelle, il naso, le mani, le orecchie; ti guardo senza sbattere gli occhi quando ho bisogno di sapere forte che ci sei
Fare attenzione a dove metto i piedi e intanto guardare in alto quanta bellezza, tu sei come Genova per me
Mi distrae un grillo, un bambino mi saluta e cerco di non stupirmi; quei pizzaioli algerini hanno le stesse luci che in discoteca, si ferma un’ambulanza a sirene spente e mi chiedo se..
Leggo tutti i nomi dei caduti di S. Teodoro e mi colpiscono tre cose: il cognome Brigola; e che Luigi e Mario erano forse fratelli: Ravizza; e poi un Firpo che ricorre in questi giorni… Passo accanto alle ragazze dell’angolo, al Caffeina, a dei fichi l’india del benzinaio che non avevo mai notato e riecco bianca, alta, inspiegabile, la scritta ” ar! ”
Poi una donna va a fare pipì nell’aiuola incolta del metrò. Scende da un auto un uomo che è come Abatantuono in Attila, flagello di dio,, ma magro; e va a prelevare. Due ragazzi fischiano a caso o alla puttana più giovane e bella e invece si gira un’anziana donna sposata, io rido, allora mi chiedono di fermarmi e io continuo a camminare (e a ridere), allo stesso ritmo di uno che nella carreggiata ha perso il bus, e ora torna indietro.
Vedo finalmente la madonna sporca che Dirige et erige, penso a quando son passata da sotto e non te l’ho scritto, che c’eran troppe cose da guardare per registrarle (cose della metro, delle ferrovie, delle macchine, delle scritte) – ma ho le foto. Salgo in via Abbiate per incontrare una bambina sulle spalle di suo padre (in famiglia questa cosa la chiamiamo: scapalocia) e scendo incontro ai pochissimi turisti. Passo dentro Principe con una canzone in testa e sedendomi per scriverti trovo una spesa sudamericana di patatine e tortillas (e me la porterò via). A coppie vengono a studiare i tabelloni delle partenze, nessun treno è in arrivo. Ma mi ri-informano che quelli diretti a Levante nei prossimi giorni non fermeranno a Genova Sturla: ascoltando bene per la prima volta, sento che l’indicazione geografica ne fa un annuncio all’antica, per genovesi e altra gente del posto – come me.
Le righe sottili di pioggia sporca sulle decorazioni del sottotetto della casa davanti; guardo in casa della Tilde; per le scale e la salita oggi un sacco di gente, seguo due profumi, seguo le frecce, un uomo su una scala esterna si porta una mano al volto e si accarezza piano… La luce ancora viva del sole illumina il palo verticale della chiesa di Dinegro. Passano ridendo due suore vestite di celeste, il bambino di una donna con uno stesso velo – di un altro colore – si guarda attorno mentre un ragazzo cinese scrive il menu del ristorante Delyzia – Italian specialties. Il palazzo che dà sulla metro è rotondo, noto ora. Io stavo per scrivere che dà su un rametto (e dà anche su molti rametti e foglie cadute in autunno e mai portate via). Oggi che è più fresco passo da sotto, dalla farmacia coi disegni di Mago Merlino, e a una donna cade a terra la batteria del pc; un uomo mi guarda come se fossi una deficiente, me e il mio telefonino, e io gli sorrido; un ragazzo chiede un bacio a una ragazza, forse l’ha accompagnata a casa in bici. Mi sento una spia…
Oggi guardo tutti i buchi nei muri. Regolari, irregolari, rettangolari, e i tralci di vite che piovono dall’alto (non mi veniva tralci – sto sempre attenta alle parole – e per cercarlo ho scoperto che il tronco vecchio dell’uva si sfalda a ritidoma)
Gianni mi fa pagare la focaccia un euro ma mi offre “acqua per il viaggio” e “cedrata in vendita da dopo la guerra, ’46, visto quanti secoli ho?”
Su una panchina un po’ riparata un uomo anziano canta con me che you are my sunshine, my only sunshine…
La proprietaria cinese del bar di Piazza Principe insegue inutilmente una turista che ha lasciato il suo borsello nel locale, lo trovo bello, e un uomo si scansa su un marciapiede larghissimo per farmi passare in quel mezzo metro d’ombra che c’è, e lo trovo bellissimo
Da quando passo da sotto e voglio stare al fresco è agli scaloni della commenda che inizio a scrivere, e a guardare passare i turisti russi, i primi venditori di rose, i turisti americani, Mahfoud, una coppia che chiede in inglese e a gesti indicazioni a un siciliano, e lui che gli indica di andare dritto, dritto, dritto, sempre dritto…
Voglio leggere la Bibbia. Voglio leggere il Corano. Voglio tornare a casa e sistemare il contratto della mia nuova scheda prepagata. Ma non ho una casa. Voglio avere scorte di frutta secca di legumi di hamburger vegani cereali precotti. Anche di cartaigienica sapone intimo deodoranti, come a casa di mia madre. Voglio i miei libri. Cercare una riga sottolineata anni fa. Un segnalibro lasciato fermo a una postfazione. Voglio appendere le foto che amo alle pareti con delle cornici vere.
Poi non sono sicura che casa la si trovi attorno a queste cose. Anzi mi ricordo che ho sempre creduto di no. Però mi sono imborghesita, o mi sono stancata, e ora voglio una casa in cui tornare e stare sola o con voi, ma comunque stare.
L’altra volta scendevo da salita degli angeli e mi veniva in mente tutto quello che avevo già visto e annotato e due cose che avevo scordato di scrivere (i tre cuccioli che rincorrono perfettamente appaiati la stessa pallina – appaiati è valido anche quando si è in gruppo? – e l’erba che ricresce nella macchia bianca di calce o pittura sulla creuza, la vernice batte i mattoni ma la natura batte tutto) e penso anche che con te e da te parto per scoprire nuove parti di Genova che non conoscevo: il miscuglio di neoclassico e porticati fascisti a Sampierdarena, rumente ovunque, le parole Mia e Radici su un muro che stonano l’una accanto all’altra e poi una via che si chiama Greto di Cornigliano (che la trovo bella la parola greto, peccato che nessuno la usa più); e altre due scritte a pennarello: una che dice qualcosa che qualcuno ha cancellato e sotto “chi cancella è terrorista” (quando si abusa delle parole quelle perdono di senso, diventano come il puffare dei cartoni animati) e una che indica a sinistra il Crack point (punto di frattura o…)
Poi lo sai che cosa avevo fatto l’altra mattina? Mi ero fermata a guardare il tuo berretto salire la creuza andando su e giù al ritmo delle tue ginocchia.
Oggi invece ti ho visto chinare la testa sul telefono ed era altra musica che mi regalavi. Poi c’è che una delle piante sospese a quel primo piano forma un’ombra di cuore sullo spigolo del muro a quest’ora. E Gianni mi fa pagare venti centesimi di più per la stessa focaccia che mi dà sua sorella, ma mi racconta parole di nostalgia per il mare e ammirazione per una madre che ha 104 anni e ha sempre lavorato “per cinque persone” e – anche se era bello suonare col Meli per osterie – si è meritata di non stare sola a casa la domenica. (Lo sai che in francese per il mare e la madre c’è la stessa parola?)
Oggi conosco anche la fioraia del quartiere (le piace la focaccia secca). Sento che lo abito un po’, ogni volta che facciamo l’amore di più.
Oggi mi butto nel sole di via Bruno Buozzi (ma è un passante a scandirmelo con attenzione, abito quindi luoghi di cui non conosco bene il nome, forse per non rischiare di puffarli troppo presto) e seguo un uomo su una scala bianca e bellissima che non avrei notato senza di lui e leggo le notizie del Secolo su salvini che passeggia nei caruggi, e mi piace che dica che ha suscitato mugugni, mugugni è una parola bella che sa di protesta e diritti prima che di lamentele, e leggo su un adesivo “Kultura del subsuelo” ed è una passeggiata di parole questa.
Passo sotto all’Admiral. Penso che mi sento come fossi altrove e questo altrove mi ricordasse Genova. (Sono strana, a volte.) Mi saluta un uomo che l’altra volta ha fatto il tifo per noi quando ho giocato a calcio alla commenda con un bimbetto che mi ha battuta 2 a 1. Quando mi siedo per scriverti e lui torna indietro mi fa vedere il video che ha fatto a salvini che entrava in via Pré. Le parole diventano parolacce, poi penso che abito sempre di più anche questa strada che faccio da te a me e mi tremano i piedi mentre mi passa sotto il metrò, come mi tremavano le gambe quando ripartivano il 18 e il 3 ieri, ed ero quasi arrivata.
Dopo che abbiamo fatto l’amore vorrei dilatare all’infinito ogni cosa che sta attorno ai passi che faccio. Mi si fa spazio dentro, pieno di bellezza. Mi esce amore dagli occhi e dai sorrisi e in questo modo va bene anche andarsene per un po’.
A presto…
Oggi faccio il percorso inverso, cammino proprio al contrario, faccio ridere tutti
<<<e vedo le tre finestre che son riusciti a incastrare a lato della galleria S. Lazzaro, sopra alla _degli angeli, Pizzeria_ – chiamare i locali come le voci dei dizionari –
>>>e l’impalcatura vuota per un’insegna pubblicitaria sponsorizza il nulla o il cielo,
<<<il matitone è quasi bello, con la sua croce di San Giorgio che sembra non farsi mangiare mai dal vento, dietro i primi palazzi colorati /
>>>ora passa un treno bandiera italiana /
<<<c’è un giunco di vite che spunta speranzoso da un mucchio di rottami, e vorrebbe andare a vino nel cemento,
>>>e una lucertola dello stesso verde, con lo stesso destino,
<<<e una tag nuova da chef, col buffo ridicolo;
>>>le statue alte, eccole, e un altro chef
<<<e c’è un palazzo che curva sinuoso ed allarga la strada,
>>>reti convesse per tener giù i ladri, se volessero arrampicarsi dalle grondaie
<<<e tag politiche vecchie cancellate o corrette,
>>>e un negozio d’artigiano che per quanto mi impegno non capisco
cosa tratta, se non il disordine e la bellezza!
<<<CHARITAS (dietro i riflessi, nelle bocche spalancate dei santi), denti,
>>>anelli a sposare e tenere su tubi, ganci come di carrucole olandesi,
Scrivo in italiano (per il momento). Ma amo iniziare le frasi con i "ma". E con le "e", e mettere le "e" dopo le virgole. Amo le parentesi, gli incisi, i trattini. Ogni tanto, mi ricordo del punto e virgola. Odio il "piuttosto che" - come lo odiano quasi tutti. Amo il francese, l'inglese, il tedesco parlato da un amico, lo spagnolo delle turiste, i suoni/segni/punti-in-rilievo-su-un-libro-speciale delle lingue del mondo.
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about me
Elle vit
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elle.vit@mail.com
Su Twitter (in 140 caratteri) mi descrivo così:
"Traduttrice. Amo le lingue, le lett(erat)ure, le scritture. Credo nelle infinite sfumature di senso e di genere."
Sulla carta: sono laureata in Localizzazione (master di I livello) con una tesi su "L'utilizzo dei Cat Tool in generale e di Atril DejaVu X2 nello specifico nella traduzione brevettuale" e in Lingue e Letterature Straniere con una tesi dal titolo "Belle e infedeli? Appunti per una storia delle metafore di genere nella teoria della traduzione".
Il mio sogno (1) all'ingrosso: lavorare nell'editoria.
Al dettaglio: sono (anch'io) un'aspirante traduttrice letteraria, dall'inglese e dal francese.
Il mio sogno (2): viaggiare e tradurre, se mai non fossero la stessa cosa.
All'inseguimento del mare e dei miei sogni ho traslocato a Genova, dove nuoto rido e vivo da traduttrice brevettuale (dall'inglese) che continua a interessarsi di traduzioni (anche letteraria, anche dal francese), parole, lingue, culture, città.
Genova è una tappa, come lo era Torino. La traduzione è il viaggio e parte del viaggio e motore del viaggio.
Vorrei che il blog diventasse: un diario di questo viaggio, un bloc-notes, un quaderno di schizzi. Una Translation Memory meno fredda di quelle di Trados, una palestra ed una mostra - una piacevole abitudine serale per staccare dal mondo del testo tradotto senza liberarmene. Una riserva: di pensieri, di testi, di parole.
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